Patrizia Speroni
Leggimi

Un viaggio in treno di ordinaria tristezza


La sveglia suona alle 4.50. Non sono più abituata a cominciare la mia giornata all’alba. Non penso neppure di alzare le tapparelle, certa che fuori sia ancora buio. Non mi impegno più di tanto nella fase di preparazione. Mi aspetta un viaggio in treno. Vestiti comodi, scarpe basse ed un filo di trucco, come direbbe Ornella Vanoni.

Esco e penso che sarò da sola a camminare verso la stazione. Effettivamente alle 5.30 della mattina le strade sono tutto, fuorché affollate.

Entro in un bar che non conosco. Devo assolutamente fare colazione. Il barista mi osserva con un misto di stupore e fastidio. Ha ancora il giubbotto, ha appena avviato la macchina del caffè e non sembra che abbia molta voglia di cominciare proprio da me la sua giornata di lavoro.

Nel momento in cui chiedo un cappuccino, realizzo che sarà il primo della giornata, che sarà schifoso e mi auguro che il latte, recuperato da un bricco riposto sotto il bancone, non faccia a pugni con il mio intestino.

Di brioche fresche non c’è traccia alcuna. È ancora troppo presto. Due tristi bomboloni anemici sembrano pregarmi di non separarli. Li tranquillizzo. Ci vuole un certo coraggio per mangiarli!

Salgo sul treno e scopro che non sono l’unica viaggiatrice. Pendolari, dall’aria già stanca, osservano con sguardo assente un paesaggio che conoscono a memoria. Faccio altrettanto: sguardo perso nel vuoto, pensieri in libero e disordinato fluire e la sensazione di non essere proprio da sola.

Il sedile vicino al mio è vuoto, occupato dalla mia valigetta, antica strategia del pendolare che vuole scoraggiare chiunque dal sedersi di fianco.

Eppure sento che “qualcosa” c’è, quella strana, inspiegabile sensazione di vicinanza di ciò che continuo a non vedere. Sul sedile alla mia destra, sempre e solo la mia valigetta, oggetto totalmente privo di vita propria.

Arrivo a Milano. Seguo come un cane da tartufo il profumo di brioche appena sfornate. È il bar che, da anni, fa i cappuccini migliori ed i camerieri, non proprio nel fiore degli anni, sono abilissimi nel memorizzare ogni variazione di caffè richiesta dai clienti.

Salgo su un taxi. L’autista potrebbe tranquillamente far parte di un gruppo musicale punk. Vestito di nero, capello tinto e cotonato, guanti di pelle nera, cinturone e stivali, neri ovviamente! Mi chiede se preferisco la strada più lunga o quella più veloce. La più veloce ovviamente! Chi vorrebbe stare in macchina con lui per un viaggio allungato ad arte?

Continuo ad avere la sensazione che qualcuno sia salito sul taxi con me. Arrivo a destinazione. Non sono sola. Questa “presenza”, che avverto ma non vedo, attende pazientemente che arrivi il mio turno, sbriga con me le pratiche di accettazione, mi accompagna per corridoi sconosciuti, ascolta insieme a me quello che un medico mi spiega, saluta mentre io mi congedo ed esce con me.

È il momento di tornare. Lo stesso tragitto al contrario: taxi, stazione, treno. Stesso paesaggio, stessi rumori, diversi compagni di viaggio, ma identica sensazione di non essere sola.

Sono stanca. Non sono riuscita a dare ordine ai pensieri. La confusione regna sovrana nella mia testa. Ho solo voglia di farmi accogliere dal calore di casa. Desidero come non mai che il sonno abbia il sopravvento sulle mie elucubrazioni mentali. Se sono fortunata farò un bel sogno.

Sogno lei, la presenza che ho avvertito per tutta la giornata. Non la saprei descrivere, ma in quel sogno si fa riconoscere e rivendica la propria esistenza. Ha voce e mi parla: “Mi senti perché sono il peso che avverti sul cuore. Mi vedi perché sono le lacrime che tu piangi. Non pago mai perché sei tu che paghi sempre per me. Sono la tua tristezza”.

 

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patrizia.speroni@aruba.it

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