Io e il mio cane non ci siamo piaciuti subito. Il nostro non è stato un amore a prima vista. Lui troppo impegnato a saltellare in ogni angolo di un ambiente non familiare ed io perplessa, perché il suo muso assomigliava più a quello di un agnellino che a quello di un cucciolo.
Il colpo di fulmine è scattato fuori dall’ambulatorio del Veterinario: un morbido gomitolo nero rotolava, cercando rifugio nel mio giubbotto. Ci siamo adottati a vicenda.
La mia casa è diventata la sua casa: ogni angolo da scoprire, campo libero dovunque, nessuna zona off limits.
Ricordo il primo Capodanno insieme: Jovanotti alla radio e Dodo, piccola palla di pelo nero, raggomitolato sul letto, per nulla intimorito dai botti e dai fuochi d’artificio. L’unione delle nostre solitudini ci faceva stare bene.
Per quasi 16 anni ci siamo guardati, studiati, sorvegliati speciali l’uno dell’altra. Abbiamo imparato a conoscerci come le nostre tasche, a comunicare pur usando due linguaggi diversi.
Ipercinetico, furbo, curioso, tenero. L’ho visto invecchiare. Gli ho chiesto di non lasciarmi mai, consapevole dell’assurdità del solo pensarlo.
Mio malgrado, ho dovuto ridimensionare le mie richieste: gli ho chiesto di aspettarmi, prima di andarsene per sempre e lui ha mantenuto la tacita promessa.
Io c’ero quando lui non ce la faceva più. Pur desiderando di averlo sempre vicino, mi sono arresa di fronte alla resa di un corpo stanco.
Alla fine ho deciso di lasciarlo andare, scegliendo per me la sofferenza dell’abbandono e l’abbandono della sofferenza per lui.
Solo ora ho capito cosa voglia dire “lasciare andare”, pur continuando a voler bene o ad amare.
Si chiamava Dodo, era il mio cane ed oggi avrebbe compiuto 16 anni.
Scrivimi!
patrizia.speroni@aruba.it