“Due di picche”, espressione universalmente riconosciuta per intendere un rifiuto. Di preferenza utilizzata in ambito sentimentale, viene riproposta anche in altri contesti in cui si vuole sottolineare l’importanza di un “no”.
Per chi muove i primi timidi passi sul sentiero tortuoso delle relazioni sentimentali, il due di picche può essere considerato un rito di passaggio che dovrebbe portare – ce lo si augura sempre – verso la maturità.
Dare o prendere un due di picche con stile è un’arte difficile da praticare, perché si gioca sul terreno della pratica, senza il supporto di una preparazione teorica.
“No” è la negazione per eccellenza, breve, efficace, di immediata comprensione. Eppure ha un peso diverso a seconda del campo d’azione in cui opera.
Il “no” come proibizione. È una limitazione dell’azione, spesso richiesta dalla necessità di far rispettare delle regole. Come tale, si accetta più facilmente.
Il “no” come espressione di una non volontà di azione. Condivisibile o meno, lo si comprende perché rientra nella libertà di ogni essere umano di decidere consapevolmente di fare o non fare.
Il “no” come rifiuto sentimentale tocca la sfera emotiva ed è pertanto più complicato da elaborare e da accettare.
C’è chi ostenta la propria collezione di rifiuti, chi non ne parla per riservatezza e chi per timore. Per altri quel “no” può arrivare a mettere in discussione la persona nella sua interezza.
L’autoanalisi selvaggia di chi non sa gestire un rifiuto porta a galla il timore di non essere mai all’altezza, inadeguati su ogni fronte. È la dichiarazione di resa di chi si sente brutto fuori e brutto dentro a causa di quel “no”.
Il problema non è il rifiuto che il “no” esprime, ma l’incapacità di accettarlo, gestirlo e superarlo.
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