Patrizia Speroni
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Fare un complimento non provoca l’ernia!

Abbiamo bisogno anche di parole


Diciamolo subito: un complimento ben fatto ci piace ed anche parecchio. In esso possiamo individuare tre aree di applicazione: caratteriale, fisica, lavorativa.

Si può lodare il carattere di una persona e il suo modo gradevole di relazionarsi con gli altri. Ci si può complimentare per la bellezza di un fisico o una parte di esso. Si può dichiarare il proprio apprezzamento per l’abilità di una persona, riconoscendone competenza e validità.

Spesso un complimento è, per chi lo riceve, un’iniezione di ottimismo, un incentivo a far meglio, una gratificazione che soddisfa l’umano desiderio di piacere e di essere valorizzati.

Eppure, farlo sinceramente pare essere cosa ardua, in contesti in cui invidia e competizione fagocitano il riconoscimento del merito altrui.

Ci sono persone per le quali il complimento è uno sforzo titanico. Il loro vocabolario non comprende questo sostantivo, a differenza invece del termine “difetto” che è ben presente nel loro linguaggio e che viene reiterato, anche sotto forma di aggettivo e di avverbio.

Assai diffusa è la pratica dell’apprezzamento interessato, quello ben confezionato, d’impatto, mirato ad ottenere “qualcosa”. Una volta ottenuto quel “qualcosa”, il complimento svanisce come neve al sole.

C’è chi nega con fermezza l’utilità del complimentarsi, sostenendo che si tratti esclusivamente di parole al vento. I fatti sarebbero eloquente esempio di concretezza.

Eppure abbiamo bisogno anche di parole. Preferiamo di gran lunga la soddisfazione di parole espresse con semplicità al rimpianto di parole non dette.

 

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